La natura degli attacchi all’istruzione pubblica contenuta nel maxiemendamento Gelmini approvato alla Camera (a cui si aggiunge il disegno di legge Aprea) è senza precedenti: con queste leggi il governo Berlusconi corona il sogno a lungo coltivato dalla borghesia italiana di distruggere l’istruzione pubblica a tutti i livelli, attraverso la privatizzazione in fondazioni, tagli agli insegnanti e al personale non docente e la distruzione delle scuole elementari attraverso l’introduzione del maestro unico e la cancellazione del tempo pieno. Il compito che ci poniamo con questo breve testo è quello di dare un contributo per la comprensione della portata di questi progetti di controriforma e nell’elaborazione di una piattaforma rivendicativa d’alternativa. Questi ci paiono i punti di partenza necessari per poter generalizzare le proteste nelle scuole e nelle università.
Tagli, tagli e ancora tagli.
Il primo, fondamentale, elemento che ci permette di comprendere il salto qualitativo dell’attuale Governo nell’attacco all’istruzione pubblica è il devastante ridimensionamento dei finanziamenti elargiti dallo stato. La scure dei tagli si abbatte senza distinzioni dalle elementari all’università. Stiamo parlando di circa otto miliardi di euro in meno alla scuola pubblica in tre anni, a cui va aggiunto un altro miliardo e mezzo di euro in cinque anni per quanto riguarda le università. L’effetto di queste misure colpisce direttamente gli organici: verranno tagliati 87mila insegnanti e 43mila tra collaboratori scolastici, personale di segreteria, amministrazione e tecnici di laboratorio, ai quali vanno sommati 47mila posti di lavoro già cancellati dalla finanziaria del precedente governo Prodi. La compressione della spesa scolastica da parte dello stato centrale si collega anche al progetto di federalismo fiscale aggiungendo un ulteriore elemento allo smantellamento dell’unitarietà del sistema scolastico nazionale: quale valore avranno i titoli di studio se l’offerta didattica sarà diversa da regione a regione? Con i tagli dei finanziamenti per le assunzioni, al posto di molti docenti di ruolo ce ne saranno di precari. Avendo nomine nella maggior parte dei casi annuali, a ogni settembre vedremo molti dei nostri insegnanti cambiare: da un lato viene messo completamente in discussione il giusto principio della continuità didattica e dall’altro saranno sempre più frequenti ritardi nelle nomine con classi che per mesi rischiano di rimanere senza insegnanti. La volontà del governo di fare cassa sulla scuola e l’università pubblica avrà effetti devastanti: al taglio dei finanziamenti e dell’organico si aggiunge il taglio delle scuole. La ministra, infatti, ha dichiarato che verranno accorpati tutti gli istituti con meno di 600 alunni. Molte scuole di provincia chiuderanno, con conseguenti disagi per tutti quegli studenti che non vivono in città. Diminuiranno anche le ore di lezione: su questo terreno a pagare il prezzo più altro sarà la scuola primaria dove le ore settimanali di lezione verranno ridotte a 24 con l’introduzione del cosiddetto “maestro unico”. La cancellazione nei fatti del “tempo pieno” non è altro che un attacco indiretto alla classe lavoratrice: a chi affideranno i loro figli i genitori che lavorano? Dovranno pagare di tasca propria doposcuola privati? Ma c’è un dato che è già aumentato ed aumenterà, ed è il numero degli studenti per classe. Con più di 30 alunni il tempo che il docente potrà dedicare ai singoli studenti sarà sempre più limitato, limitando così l’efficacia della sua azione educativa, dato che buona parte del tempo dovrà essere impiegato per valutare piuttosto che per insegnare. Altro che “migliore qualificazione del servizio scolastico”, in una scuola pubblica già devastata dai precedenti tagli, con strutture inadeguate e sovraffollamento; queste misure preparano un nuovo peggioramento verticale della didattica e più in generale delle condizioni di studio nelle nostre scuole: vivremo male in classe, studieremo peggio, verremo bocciati di più, saremo ridotti all’obbedienza dal ricatto del voto in condotta che fa media. Non saremo più persone da preparare per una vita ed un lavoro decenti, ma forza-lavoro dequalificata da ricattare attraverso la precarietà del lavoro.
Le scuole diventano fondazioni
“La presente proposta di legge introduce la possibilità per le scuole autonome di trasformarsi in fondazioni nonché di avere partner pubblici e privati, disposti a entrare nell’organismo di governo della scuola”
On. Aprea,
Una scuola di classe
I cosiddetti “percorsi di eccellenza” saranno proposti da quelle poche scuole pensate per riprodurre l’élite dominante. Scuole che, grazie all’apporto di risorse private (attraverso l’inevitabile aumento delle tasse d’istituto e il denaro proveniente da aziende esterne opportunamente detassato) e a particolari finanziamenti pubblici (si propone di spartirli regionalmente e in base al “merito” delle scuole) avranno maggiore possibilità di dare un servizio di qualità a partire dall’assunzione dei docenti migliori. Non a caso nella medesima proposta di legge si propone la cancellazione delle graduatorie nazionali degli insegnanti: ogni scuola assumerà direttamente i propri docenti, e solo quelli che faranno comodo, cancellando così ogni forma di pluralismo e di libertà dell’insegnamento. Non è difficile immaginare che queste saranno le scuole più ambite, e se non basteranno gli sbarramenti economici ne vedremo di altro genere, a partire da test d’ingresso e numeri chiusi. Altro che diritto all’istruzione! Per tutti coloro che non potranno permettersi le poche, costose, scuole d’élite la realtà sarà fatta da scuole con sempre meno fondi, con insegnanti malpagati, con programmi sempre più schiacciati sugli interessi delle singole imprese e del territorio specifico. Tutto questo in piena continuità con i progetti di regionalizzazione, in modo da sfornare giovani senza un’istruzione generale ma al massimo con competenze settoriali, pronti un futuro di precariato e bassi salari. Vedremo anche il dilagare dell’alternanza scuola lavoro con due obbiettivi: da una parte fornire manodopera gratuita alle aziende finanziatrici delle scuole, dall’altra addomesticare gli studenti a un futuro di sfruttamento. Per caratterizzare ancor più il carattere di classe della proposta di riordino delle medie superiori in questi giorni, nella discussione relativa all’area tecnica-professionale, tra le proposte in campo si parla di un triennio non uguale per tutti ma con un ultimo anno di orientamento per l’università o per il lavoro. Viene così messa in discussione una delle conquiste storiche del ’68, cioè che anche chi proviene dai tecnici e professionali possa fare l’università. L’idea che sta alla base di queste proposte è semplice: solo chi ha soldi può permettersi di studiare, mentre per tutti gli altri si prepara un percorso di puro addestramento al lavoro. Insomma la vecchia scuola di classe non così dissimile da quella pre sessantottina.
Dal Consiglio d’istituto al Consiglio di amministrazione
Per completare la trasformazione delle scuole in vere e proprie aziende i “vecchi” organi collegiali vanno cancellati. Nelle scuole-fondazioni i consigli d’istituto si trasformeranno in consigli di amministrazione, che saranno composti da un numero di membri non superiore a undici. E’ prevista la partecipazione di diritto del dirigente scolastico, di una rappresentanza dei docenti, dei genitori e, negli istituti superiori, degli studenti; ne fanno parte anche “rappresentanti dell’ente tenuto per legge alla fornitura dei locali della scuola ed esperti esterni scelti in ambito educativo, tecnico o gestionale”. Insomma si riducono drasticamente le componenti docenti, genitori e studenti e sparisce del tutto la rappresentanza degli Ata. In compenso l’organo di gestione delle scuole sarà stipato di esperti esterni a rappresentare gli interessi di eventuali finanziatori privati. Con questi provvedimenti inizia a materializzarsi quello che da molti anni è un sogno della classe dominante: creare un’istruzione sotto tutela del mercato, dove le singole scuole competono tra loro per obiettivi dettati dalla produzione, distruggendo così la natura pubblica e unitaria dell’istruzione del nostro paese.
Disciplina e autoritarismo
L’offensiva portata avanti all’istruzione pubblica non è fatta solo da tagli e controriforme. Il governo e in mezzi di stampa legati al grande capitale hanno da tempo lanciato una vera e propria campagna ideologica contro il mondo della scuola, gli insegnanti fannulloni, il bullismo dei giovani, l’egualitarismo anti meritocratico e, dulcis in fundo, la rivolta del ’68 come origine di tutti i mali. L’obbiettivo è chiaro: provare a dividere da subito quello che potrebbe essere un pericoloso fronte unico d’opposizione a questi, sciagurati, progetti. Mentre si provano a comprimere sempre più gli elementi di democrazia all’interno delle scuole, la ministra giustifica la propria politica ponendo una domanda retorica: “La scuola serve a formare buoni cittadini capaci di leggere, scrivere e far di conto (…) oppure è luogo dove apprendere come rivendicare i propri diritti?” Peccato non ricordi che un’istruzione di massa è stata conquistata proprio grazie alle lotte del movimento studentesco e che chi la sta smantellando non sono di certo gli studenti. Di fronte a due decenni di tagli e controriforme, la risposta della Gelmini è quella di una vera e propria “restaurazione”. Non a caso ha fatto proprio l’eloquente motto “torniamo all’antico e sarà un grande progresso”. L’applicazione di questo principio non ha tardato, nell’ormai Decreto legge n.137 il voto in condotta torna ad essere determinante ai fini della promozione. Con un 5 si viene bocciati, a prescindere dalla media delle altre materie. La maschera demagogica calata su questo provvedimento è quella della lotta al bullismo; ha un bel coraggio la ministra ad utilizzare questo spettro quando sono proprio i suoi progetti a rendere inadeguata la scuola pubblica. Con classi sovraffollate, con insegnanti sempre più precari e sottopagati, con una scuola che invece di accogliere, respinge, le problematicità non possono che esprimersi attraverso il canale più violento. La reltà è che si vuole mandare un messaggio chiaro: chiunque intenda mettere in discussione lo stato di cose presente, a partire dalla battaglia in difesa della scuola pubblica, può essere punito ed espulso dal precorso formativo. Ma il voto in condotta non sarà solo strumento di repressione contro chi reagisce, ha un significato pedagogico chiaro. La ministra lo ha detto molto chiaramente: “Ritengo indispensabile che nella scuola, ma anche nella società, si affermino alcuni valori: responsabilità, gerarchia, rispetto dell’autorità”. Insomma “restituire alla scuola la sua funzione nella società” significa costruire una scuola che cristallizzi le differenze di classe della società, che invece di insegnare, giudichi, indottrini alla passività e all’accettazione dello stato di cose presenti, addomesticando generazioni di giovani a un futuro precario e una vita di sfruttamento. Ecco cosa significa per lorsignori tornare a prima del ’68.
La privatizzazione delle università
L’offensiva della ministra non ha lasciato fuori le università. Le modalità di questo attacco sono contenute nel Decreto Legge 112, (ora Legge 133 del Parlamento) celermente approvato e convertito in legge durante l’estate, proprio quando è molto più difficile costruire una mobilitazione. Anche qui il primo passo è il drastico ridimensionamento dei finanziamenti pubblici: il fondo per il finanziamento ordinario delle università è ridotto di 63,5 milioni di euro già dal 2009 e per gli anni successivi rispettivamente di 190, 316, e 417 milioni, fino ad arrivare ai 455 milioni del 2013, per un taglio complessivo di quasi 1500 milioni di euro in 5 anni (art. 66, comma 13). A questa cifra è da sommare il taglio di 472 milioni alle spese correnti del ministero previsto per il 2010 dalla legge 93/08. Non manca neanche il doveroso limite delle assunzioni, che per gli atenei non possono superare il 20% dei pensionamenti per il triennio 2009-2011, per poi passare al 50% dal 2012 (art. 66, comma 13). Ma il pezzo forte del governo è un altro: da settembre le università pubbliche, con voto del solo Senato accademico, possono trasformarsi in “fondazioni di diritto privato” (art. 16). La così creata fondazione sostituisce in tutto e per tutto l’università, acquisendone anche il patrimonio e “la proprietà dei beni immobili già in uso alle Università trasformate”. Il tutto senza neanche dover uno straccio di imposta. Quali caratteristiche avranno tali fondazioni? Lo deciderà sempre il Senato accademico che “contestualmente alla delibera di trasformazione” adotta “lo statuto e i regolamenti di amministrazione e di contabilità”. Ovviamente, “lo statuto può prevedere l’ingresso nella fondazione universitaria di nuovi soggetti, pubblici o privati”. Questi soggetti potranno finanziare le fondazioni universitarie, anche qui in modo totalmente esente da tasse e imposte, con la deducibilità dal reddito della somma versata e una riduzione del 90% delle spese notarili per le donazioni. “Resta fermo il sistema di finanziamento pubblico” afferma il decreto, solo che la sua entità sarà determinata in base all’entità dei finanziamenti privati di ciascuna fondazione. Le fondazioni non potranno distribuire gli eventuali utili che dovranno essere reinvestiti all’interno della fondazione stessa dal momento che sono enti non commerciali, ma devono operare “nel rispetto dei principi di economicità della gestione” che “assicura l’equilibrio di bilancio”. Il passaggio a fondazione, dunque la messa in discussione della propria natura pubblica, sarà per la maggior parte degli atenei una mossa obbligata, vista la mancanza di finanziamenti adeguati dallo Stato, le università dovranno trovarne aziende che hanno interesse a investire nelle fondazioni. Un interesse, quello delle aziende, che come e più delle medie superiori, deriva dalla possibilità di decidere l’organizzazione, le regole e le caratteristiche della didattica all’interno delle fondazioni, così da poter creare dei corsi di laurea mirati esclusivamente al soddisfacimento delle necessità dell’azienda stessa, cancellando qualsiasi formazione culturale. Certo, ci saranno sempre dei corsi di eccellenza che sapranno dare a chi li frequenta una formazione di qualità, solo che li potrà seguire (ancor più di quanto già avvenga oggi) solo chi potrà permettersi di pagare le rette, per le quali è lecito aspettarsi un aumento vertiginoso. Vale la pena ricordare, a proposito di rette, che attualmente le sole tasse versate direttamente dagli studenti coprono in media il 19% del bilancio complessivo delle università italiane, una cifra che ci dà l’idea di quanto poco sia garantita la possibilità per tutti di avere un’istruzione garantita. Si profila dunque uno scenario di “corsa al finanziatore” che creerà una gerarchia di atenei al cui apice troveremo poche strutture di eccellenza che concentreranno la quasi totalità dei finanziamenti, garantendo la propria sopravvivenza in cambio dell’asservimento ai desideri dei privati e dove per iscriversi bisognerà pagare rette sostenibili solo da una ristretta minoranza di studenti provenienti da famiglia di estrazione sociale agiata, che qui apprenderanno come prendere il posto dei propri genitori alla guida della società. In fondo alla piramide ci sarà invece una moltitudine di università o ex-università che dovranno sopravvivere con i sempre più ridotti finanziamenti statali e che vedranno la propria qualità precipitare fino a che saranno costrette a chiudere. Non soddisfatti da numeri chiusi, sbarramenti tra triennale e specialistica sempre più significativi, aumenti di tasse progressivi,… i nostri governanti da un lato vogliono impedire strutturalmente la possibilità che un settore di studenti che esce dal canale tecnico-professionale, d’ufficio non possa nemmeno iscriversi all’università, mentre dall’altro lavorano per cancellare definitivamente ogni carattere di massa dell’università. Per questo il decreto legge 112, pur essendo il coronamento di anni di attacchi all’istruzione pubblica, rappresenta un salto di qualità: esso non si limita più ad aumentare gradualmente il livello di selezione di classe nell’università ma distrugge il principio stesso di diritto allo studio, regalando tutta l’istruzione universitaria ai privati e permettendone l’accesso solo a chi se lo può permettere.
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